Diastasi addominale, tra chirurgia e riabilitazione – intervista al dott.Filippo Di Meglio, Chirurgo plastico

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Il progetto PCare affronta da anni la tematica della diastasi addominale grazie a un approccio multidisciplinare integrato per la prevenzione e il trattamento di questa condizione. L’obiettivo è il recupero estetico e funzionale nel modo più naturale e meno invasivo possibile, attraverso percorsi di nutrizione mirata, ginnastica ipopressiva, osteopatia, correzione posturale. Negli anni abbiamo sviluppato un vero e proprio protocollo di intervento, che include anche la consulenza, al bisogno, con il chirurgo plastico. Tra i nostri specialisti di riferimento, il dott. Filippo di Meglio, Medico Specialista in Chirurgia Plastica, Ricostruttiva ed Estetica. Lo abbiamo intervistato per voi, per fare il punto sul trattamento della diastasi addominale e comprendere meglio quando è consigliato l’intervento e come il chirurgo lavora in sinergia con la nutrizione e la riabilitazione fisica.

 

 

Quando si consiglia un intervento di correzione della diastasi addominale?

Sono diversi i casi in cui si può presentare questo problema. Il più comune e conosciuto è relativo al post gravidanza, periodo nel quale l’addome ha subito un aumento delle dimensioni e della pressione intraaddominale con un fisiologico allontanamento dei muscoli retti dell’addome sulla linea mediana. Se entro un certo periodo dal parto questo allontanamento non si risolve, rimane uno spazio centrale detto diastasi. Ma questo si può verificare anche in altri casi: pensiamo a pazienti con obesità centrale (concentrata sull’addome) che si sottopongono a interventi bariatrici di riduzione dello stomaco o similari, i quali consentono una riduzione del peso importantissima e in poco tempo, ritrovandosi quindi con l’addome “svuotato” in modo simile a quello di una donna dopo la gravidanza. Anche in questo caso può essere necessario intervenire chirurgicamente, spesso in abbinamento a un’addominoplastica per eliminare la pelle in eccesso.

Sappiamo che la diastasi è classificata con diverse entità a seconda delle dimensioni. Esiste un numero di cm discriminante rispetto alla scelta di intervenire con la chirurgia?

Non c’è un cut-off preciso e valido per tutti, ma si valuta paziente per paziente in base prima di tutto ad eventuali conseguenze funzionali, ma anche a seconda del disagio a livello estetico: la componente psicologica è fondamentale nella decisione di sottoporsi a un intervento così importante. In linea di massima comunque direi che dai 4 cm in su consiglierei l’intervento, ma ci sono casi in cui si può procedere con entità minori o maggiori. L’intervento è sempre necessario dove ci sono ernie o laparocele, che possono portare complicazioni gravi per le quali è poi necessario un intervento d’urgenza sicuramente più invasivo e complesso con inserimento di reti protesiche.

Parliamo di queste reti: sono davvero un passaggio obbligato nell’intervento? Si sente spesso parlare di complicazioni

In passato erano sicuramente più utilizzate, ma oggi, con l’affinamento delle tecniche la rete, senza ernie e con muscoli ben rappresentati, viene inserita molto raramente. Si rende necessaria ovviamente in situazioni borderline più avanzate, con presenza di ernie e muscoli retti assottigliati, lateralizzati e/o talmente indeboliti che non sarebbero in grado di reggere il peso della parete addominale ricostruita.

Il chirurgo lavora con altri specialisti nel caso di paziente con diastasi?

Certamente! Quando arriva da me un paziente con diastasi è sempre indispensabile l’affiancamento di uno specialista della nutrizione e un percorso di attività fisica miratosi con un professionista specializzato in diastasi addominale e riabilitazione posturale. Questo può permettere in determinati casi di non arrivare nemmeno all’intervento, ed è fondamentale in prevenzione durante e dopo la gravidanza, o in caso di pazienti bariatrici. Ma è altrettanto importante in affiancamento alla chirurgia curare l’alimentazione, lavorare sulla postura e sul rafforzamento della parete addominale. In questo modo il lavoro del chirurgo viene rispettato e preservato, non si può pensare di correre alla chirurgia come una bacchetta magica, anche perché l’intervento va considerato come ultima risorsa rispetto alle possibilità non invasive ed è sempre uno strumento che dobbiamo affiancare ad altri strumenti.

Cosa direbbe a una paziente con diastasi dopo una o più gravidanze ma che non esclude gravidanze future?

Anche in questo caso non c’è una risposata univoca: la nostra bussola deve essere la clinica, e quindi l’esame obiettivo che il medico fa in studio, accompagnato da diagnostica per immagini. Chiaramente se c’è presenza di una piccola diastasi sconsiglio di intervenire subito, lavorando piuttosto in prevenzione e conservazione con attività fisica seguiti da un professionista formato sul tema in abbinamento alla nutrizione, e solo dopo la gravidanza successiva valutare nuovamente la necessità dell’intervento. Se però la situazione è compromessa, con presenza di ernie e disfunzioni importanti, l’intervento non è rimandabile.

Come funziona una visita per valutazione della diastasi addominale?

L’esame clinico è la parte più importante. La consulenza è sempre a 360°, con un’anamnesi completa  che riguarda non solo il lato fisico ma anche la valutazione delle aspettative riguardo all’intervento. Si procede poi con un un esame obiettivo della parete addominale facendo assumere al paziente posizioni che tendono a rendere più palpabile e visibile la diastasi, e poi a diagnostica per immagini (ecografia nella maggior parte dei casi, ma volte possono richieste altre tecniche) per studiare bene non solo la dimensione della diastasi ma anche stato dei muscoli e dei tessuti sottostanti. Per me è molto importante anche spiegare il tipo d’intervento e l’impegno che comporta.

In che modo?

Si tratta di un intervento importante, spesso accompagnato anche da una necessaria addominoplastica per rimuovere l’eccesso di tessuti molli. Il post operatorio è sicuramente impegnativo, con una prima settimana più faticosa e un recupero che dura molti mesi. È indispensabile assumersi l’impegno di indossare la guaina o fascia contenitiva più adatta per almeno 30 giorni 24 ore su 24, e poi iniziare a valutare con lo specialista una riduzione di orario a seconda dello stato dei tessuti e dello stile di vita, il tutto accompagnato da una riabilitazione e alimentazione mirata. Ricordiamo che i primi 3 o 4 mesi sono i più critici per la guarigione, e se le ferite chirurgiche guariscono in circa due settimane, dobbiamo comunque considerare che il processo cicatrizzazione continua e si rinforza per tutto il primo anno.

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